Gestire la fase acuta è la priorità per i pazienti con sepsi. Ma oggi gli specialisti si interrogano anche sulla qualità di vita di chi ci è passato
La sepsi rappresenta una problematica sanitaria globale, che affligge oltre 30 milioni di persone ogni anno (60.000 soltanto in Italia) e causa più di cinque milioni di decessi nel mondo. Ma è il momento di pensare anche a chi ce l’ha fatta a superarla.
La condizione – nota anche con il nome di setticemia, che come estrema complicanza fatale può avere lo shock settico – è scatenata da un’infezioneche può dare origine a una reazione anomala capace di danneggiare i nostri organi (cervello, cuore, reni, fegato, polmoni) e renderli non più funzionanti. A renderne difficile la gestione, oltre all’estrema complessità, è anche la scarsa risposta che oggi diversi microrganismi mostrano agli antibiotici.
Quando si riesce a gestire la fase acuta, si apre poi un altro fronte: di quale assistenza hanno bisogno queste persone nel tempo? La domanda è priva di risposta. «In nessun Paese del mondo esistono protocolli standardizzati per la gestione di questi pazienti nel medio e nel lungo termine», conferma Gianpaola Monti, dirigente medico dell’unità di terapia intensiva 1 dell’ospedale Niguarda di Milano e membro del gruppo di studio sulle infezioni in area clinica della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti). Ma il tema è di attualità crescente, per due ragioni: i pazienti che superano una setticemia sono in aumento ma pure più a rischio di ricadute o complicanze, questo è quello che si è appreso dalla loro osservazione negli ultimi vent’anni.
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fonte: fondazioneveronesi.it